L’Amore
ti dà la possibilità
di scrivere,
nella vita,
in un modo personale ed originale,
tutto quello che,
altrimenti,
senza di Esso,
verrebbe letto
come un
Anonimo.
L’Amore
ti dà la possibilità
di scrivere,
nella vita,
in un modo personale ed originale,
tutto quello che,
altrimenti,
senza di Esso,
verrebbe letto
come un
Anonimo.
Dal Vangelo secondo Matteo
“In quel tempo, i farisei, udito che Gesù aveva chiuso
la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un
dot tore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova:
Maestro,
qual è il più grande comandamento della legge?
Gli rispose:
Amerai il Signore Dio tuo
con tutto il cuore,
con tutta la tua anima
e con tutta la tua mente.
Questo è il più grande e il primo dei comandamenti.
E il secondo è simile al primo:
Amerai il prossimo tuo
come te stesso.
Da questi comandamenti dipende tutta le legge e i profeti”.
Cos’è mai questo amore
del quale ci parla il Vangelo?
La spontanea reazione, per rispondere a questa domanda,
può essere il cercare la definizione di “amore”, tentando di
dire cos’è. Ma mentre ci apprestiamo a fare questo, notiamo
che l’esigenza attorno non è questa: nessuno oggi ha bisogno
della definizione di amore... Ma, più profondamente, ha bisogno
della stessa realtà di esso. Di definizioni di ciò che possa
essere chiamato amore, ne troviamo in abbondante quantità,
attor no a noi; cercare ora, anche noi, di dare una definizione,
significherebbe aggiungere alla quantità una nozione in più,
che può essere più o meno con divisa, che può essere apprezzata
o criticata... Ma essa avrebbe veramente a che vedere
con questa realtà che il Vangelo stesso ci presenta come il più
grande e il primo dei comandamenti? Sarebbe, in fin dei
conti, una nostra definizione, non la realtà del Vangelo. Si
ripropone allora, a questo punto, l’iniziale domanda: ma
cos’è mai questo amore del quale ci parla il Vangelo?
Amore è...
Per l’uomo di oggi, amore è una realtà variamente definita
e concepita in modo diverso, pur annunciata sempre
come “amore”:
– è quando dedico la mia vita all’altro, sia al singolo,
come all’umanità: amo l’altro, amo gli altri, quando do
la mia vita per loro, quando mi do ad essi;
– è quando so ricevere dall’altro, dagli altri, ciò che essi
mi danno: so ascoltare i loro bisogni, so essere attento
a ciò che esprimono;
– è quando sto con loro, condivido fino in fondo la vita,
nelle gioie e nei dolori;
– è quando faccio qualcosa di bene all’altro, e quando l’altro,
facendo del bene a me, mi dà l’occasione di amarlo;
– è quando ci comprendiamo e stiamo bene insieme;
– è quando sento il bisogno di dare e ricevere del bene...
Potremmo continuare all’infinito in queste definizioni
che, attorno a noi, spesso incontriamo nella vita; ma, è
proprio questo l’amore di cui parla il Vangelo?
Non lo sappiamo già noi, che amare può essere così,
senza il bisogno che lo dicesse Lui? Che ci porta in più
questo amore del Vangelo?
L’amore del Vangelo, Gesù non lo definisce. Perché?
Perché Gesù ci parla di amore, senza fare una defi -
nizione di esso?
Vuol dire forse che il suo amore può rientrare in una
delle nostre tante definizioni? Vuol dire forse che il suo
amore è impossibile da definire?
“Amerai...”, già; ma che cos’è questo amore? Noi tutti
oggi sapremmo dare una definizione di amore, di ciò che
esso è; Gesù, no. Non lo definisce; dice subito: “Amerai...”.
L’uomo di oggi sa cos’è l’amore, sì, certamente; ma
quell’amore della definizione, quella che anche noi eravamo
all’inizio tentati di dare, come un’altra concezione in
più, accanto alle tante già esistenti. L’uomo di oggi segue,
nella vita, la concezione che egli ha dell’amore, secondo
quella che gli sembra la più vicina alla sua realtà e situazione
di vita:
– per il prete, l’amore è dare la vita per la causa della fede;
– per lo sposato, amore è la famiglia;
– per la mamma, amore è il figlio;
– per il lavoratore, amore è la giustizia e la libertà;
– per il giovane, amore è fare l’amore;
– per il bambino, amore è ricevere;
– per l’anziano, amore è essere amato;
– per l’uomo, amore è la donna;
– per la donna, è l’uomo;
– per chi non è maturo come donna o uomo, può essere
chiunque;
– per il mondo degli affari, amore è una merce...
L’uomo di oggi ama certamente, secondo però una o
più di quelle idee di amore che gli si confanno, in base alla
situazione di vita nella quale si trova. Tutti, in effetti,
amano; ma, per tutti, sempre più, l’amore sta divenendo
una realtà fatta sulla mia misura, una realtà legata alla persona,
diversa da uno all’altro; e allora, si può veramente
ritrovare, in tutti questi modi di amare diversi che derivano
da diverse definizioni, quel “primo e più grande” dei
comandamenti dell’umanità, che secondo il Vangelo sta
alla radice della vita? L’uomo di oggi ama, ma senza avere
più il punto di riferimento nell’amore.
La sua definizione di amore non viene come una proposta
fuori da se stesso, come nel caso dell’a more proposto
da Gesù; no, oggi, non è così: l’uomo fa partire da sé,
in base a ciò che sta vivendo, una idea di amore che gli
giustifichi l’esistenza e gli possa dare un significato,
anche dove le cose si stanno mettendo male. Questo tentativo
non è certo male; ma spesso nasconde, dietro l’ideale
dell’amore, ciò che interessa veramente all’uomo: se stesso,
non solo nel senso positivo, degli interessi da portare
avanti (ideali), ma anche nel senso negativo, degli interessi
ai quali egli si attacca sempre più strettamente (egoismo).
Ed ecco allora che, dietro la facciata dell’amore, si svelano,
se osserviamo in profondità, gli interessi umani più
meschini: dietro la parola amore, il commercio propaga i
suoi interessi; dietro il discorso di amore, sta il mio tentativo
di dominare l’altro che dico di amare; dietro “amore”
per il giovane c’è solo il piacere e il voler godere; dietro la
parola del l’amore, anche per il prete si può celare la
giustificazione per fare tutto ciò che vuole; facendo preva -
lere, in tutti i casi, non la proposta dell’“amore” stesso, ma
di quell’amore che sono io stesso, egoi sta e profittatore,
che copro i miei misfatti e il mio agire con i guanti, usando
l’amore quale veste esterna che mi rende possibile fare
tutto ciò.
L’amore non è...
A questo punto, oltre a renderci conto che non è possibile,
oltre che essere inutile, dare una definizione dell’amore,
possiamo renderci conto di ciò che l’amore NON è: me
stesso. L’amore, in nessun caso, può essere una realtà riducibile
a me, alla persona, anche quando le cose appaiono le
più belle e le più profonde... No, per ché non è ancora quella
realtà del Vangelo; e Gesù stesso, non definendola, ci fa
capire che il suo amore, quello che Egli propone:
“Amerai...” è una realtà inconcepibile. L’amore ha la caratteristica
di essere una realtà inconcepibile, per Gesù: ecco
per ché ogni definizione di esso non lo esaurisce e non lo
illustra: l’amore non si può concepirlo, renderlo con una
idea, con una definizione, perché esso c’è già, fuori di noi.
L’amore non è una realtà proveniente da noi, tanto
meno dalle nostre concezioni: è INCONCEPIBILE, perché
esiste già. Gesù lo presuppone, lo pone già come il
presente, questo amore; ecco perché non ne presenta la
definizione. Non si può definire ciò che è inconcepibile,
per ché esso è infinito; non definito, ma sempre inde -
finibile. L’amore del Vangelo non corrisponde a nessuna
delle realtà che io mi costruisco partendo da me, alle quali
attribuisco la parola: amore. Non è in mano mia questo
amore di cui parla il Vangelo; è una realtà che si pro-pone,
si pone di fronte a me e per me, perché cioè la mia vita
riceva senso dalla sua presenza, non perché da realtà per
me divenga una realtà mia.
Ogni amore che scopro come il “mio” non corri sponde
a quello del Vangelo. Ogni realtà che chiamo anche amore,
ma che scopro mia e gestita da me, non è altro che egoismo,
anche se amassi fino a dare la vita... “Se non ho
l’Amore, nulla mi giova...”. Se dunque, l’Amore del quale
parla Gesù, lo vivo come una realtà di amore mio, nulla mi
giova: non è Amore.
La tentazione di amare l’amore...
Ecco apparire, in sottofondo, la grande tentazione che
anche di fronte alle parole annunciate da Gesù, prevale nel
cristiano e nell’ascoltatore del primo dei comandamenti:
amare quell’amore, secondo le nostre idee, attese e interessi.
La tentazione di riportare il Vangelo a noi, di rivi -
verlo a partire da ciò che siamo: da preti, da padre, da
lavoratore, da... E non lasciare che sia il Vangelo stesso ad
amarci: sentirsi amati. Sentiamo le parole del Vangelo
ancora come delle occasioni per poter costruire, noi, la
nostra vita, utilizzando esse; non pensiamo ancora al fatto
che l’amore si propone da fuori, perché il nostro modo di
amare si renda grande e eterno. Amare l’Amore annunciato
da Gesù con il nostro metro, diventa proprio come
l’amore con il quale il mondo degli affari ama gli uomini:
come una merce, un oggetto per i propri scopi. Se io ora,
attraverso queste mie parole, tentassi, anche nel modo più
appassionato ed affascinante possibile, di trasmettere il
concetto che io ho dell’a more del Vangelo, non farei che
tradire le parole dette da Gesù, non otterrei altro che il
fatto di ridurre il messaggio dell’amore di Gesù ai miei
scopi: a me stesso.
Devo, invece, mettermi nella disponibilità, attraverso
anche le mie parole, a trasmettere ciò che proprio le parole
non riusciranno mai a definire: la realtà dell’amore del
Vangelo. L’inadeguatezza delle stesse mie parole, allora,
sarà il modo più fedele per accostare me stesso e l’altro
alla realtà che il Vangelo mi propone: l’amore. Anche il
Vangelo stesso perderebbe la sua stessa efficacia, se io mi
limitassi a considerare quelle parole come un principio,
come un bel discorso... Il Vangelo sarebbe un bel libro di
saggezza, ma nulla più; invece, al di là delle parole, il cristiano
sa di scoprire, proprio attraverso parole più o meno
per fette ed esatte, ciò che veramente conta: Lui, che è La
Parola, il Vangelo stesso: Gesù. La Parola di Dio non è
uno scritto, ma Gesù stesso. Se per noi è uno scritto, vuol
dire che ancora non abbiamo scoperto Gesù. Gesù è la
Parola, è il Vangelo. È questione, per noi, di eliminare una
piccola cosa: l’accento, e tutto parrebbe più vicino a noi:
dire Gesù e la Parola, Gesù e il Vangelo... Ma Dio ci chiede
di porre questo piccolo segno, che renderà tutto significativo.
Gesù è il Vangelo.
Togliendo l’accento, cioè considerando diverso Gesù
dal Vangelo, le parole non divengono più mezzo e strumento
per arrivare a Lui, ma solo a noi stessi.
Allora, a questo punto, le parole, invece di aiutarci a
incontrare Gesù, ci potranno condurre solo al distanziarsi
sempre più da Lui, perché vedremo che “le sue vie non
sono le nostre vie”, che cioè le nostre parole e i modi di
ragionare e discorrere con esse non trova no riscontro in
altra realtà che in noi stessi... E intanto, Dio ci sfugge,
sempre più, proprio mentre magari stiamo parlando di Lui.
Sì, perché parliamo di Lui evidenziando noi stessi, le
nostre parole, e non invece lasciando spazio a Lui, che è la
Parola. Io, come prete, potrei anche giungere a parlare di
Dio stesso, per ore e ore, e con argomenti i più con vincenti
e sicuri, ma nello stesso tempo oscurare, mentre la definisco,
la possibilità della sua presenza; mentre definisco il
concetto di Dio, non farei altro che impedirne la esperienza.
Sì, perché Dio è INCONCEPIBILE, indefinibile... e
solo così lo posso incontrare: non come colui che io creo o
delimito, ma come Colui che si dà come l’inconcepibile.
E nel momento in cui si dona, rimane pur sempre l’indefinibile,
Colui che si sottrae a me e quindi ad ogni mia
definizione. L’Amore, nel momento in cui si dona, si sottrae
anche ad ogni mio possesso; solo così rimane tale,
altrimenti io ho solo l’amore, il mio: me stesso.
Il mercato dell’amore...
Nessuno può portare di fronte a noi la realtà dell’a more
come una situazione da vendere, da offrire. L’amore non
si chiude né può essere chiuso nelle situazioni di nessuno,
nemmeno della Chiesa stessa; essa infatti è stata scelta e
prediletta non come la sede di questo amore, ma la realtà
che è destinata a trasmetterlo, trasmetterlo!. Con la fedeltà
che non consiste nella propria perfezione quanto nel
dono di Dio a comunicare la realtà di se Stesso.
Perfetta nell’amore, la Chiesa: certo, perché l’amo re
non è una realtà sua... E quando mai la potrebbe vivere, se
così fosse, in un modo perfetto? Mai! Mai potremmo parlare
di perfezione nell’amore, se intendiamo la situazione
dell’amore una realtà gestita dalla Chiesa.
Perfetta nell’Amore, la Chiesa, sì! Perché essa tra -
smette una realtà non sua, ma che in essa si rispecchia:
Dio stesso, che è la perfezione. Quando la Chiesa trasmette
Dio, essa è veramente perfetta nell’Amore, anche se trasmette
con le pecche e le imperfezioni che le sono proprie
nel suo cammino di realtà umana.
Nessuno può dire di produrre amore, perché l’Amore
non è un prodotto, ma è l’“INCREATO”; nessuno ne può
essere il depositario, il creatore: l’a more si trasmette,
attraverso di noi, attraverso la disponibilità della Chiesa
ad essere segno di Amore.
L’Amore passa, non si fissa nella Chiesa. L’Amore
appare e si nasconde nel segno della Chiesa.
La Chiesa è chiamata a farlo apparire, non tanto spiegando
cos’è, ma soprattutto vivendo di esso; se la Chiesa
spiegasse cos’è l’amore, finirebbe soltanto per nasconderlo
nella sua vera realtà; infatti, l’Amore non è spiegabile
se non attraverso la vita.
La Chiesa è chiamata a tenerlo nascosto, a viverlo cioè
come un mistero, perché si possa dire vera mente Amore;
altrimenti, se non fosse così, si ridurrebbe a un amore da
mercato, da vendere o comprare a seconda dell’uso e della
necessità: un pro dotto, fatto e finito.
Mentre la Chiesa parla dell’Amore, deve aiutarmi a
capire che esso non si può mai capire solo parlandone;
proprio attraverso il comprendere la relatività dei discorsi
e dei ragionamenti per capire la realtà dell’Amore, Esso si
incontrerà con noi come una esperienza significativa per
la vita. Altrimenti, è un parlare vano, vuoto e insensato.
Non è forse spesso così... quando succede che, dopo aver
parlato di amore in lungo e in largo, attraverso anche
discussioni e riflessioni e momenti di preghiera, omelie e
spiegazioni d’ogni rango, il cri stiano non sa nella vita cosa
significhi SPERIMENTARE questa realtà? Di fronte alla
vita, concreta mente, l’Amore cosa cambia, cos’è? C’È?
Dopo il discorso... nella vita... C’È?
O si è solo fatto del buon mercato, della buona Omelia,
della buona filosofia, del buon argomentare di Esso, ma
poi tutto è restato una situazione finita... nel vuoto? Già,
un prodotto consumato...?
Fregarsene di tutti...?
Fregarsene di tutti i concetti... Questa è la via del -
l’amore? In un certo senso, sì.
Certamente; perché la realtà dell’amore non è più questione,
per il messaggio del Vangelo, di un concetto o una
definizione, ma le sorpassa tutte quante, entrando nella
dimensione più vicina a noi, quella del “cuore”, cioè della
vita. Guai se mi attaccassi a un concetto, a una idea di
amore! L’avrei già ucciso! L’amore mi sfugge sempre... E
proprio per questo lo cerco...
Se l’amore ce l’ho già, se dico di avere raggiunto
l’amore, esso non è che un’illusione, e quindi una delusione,
perché di fronte alla vita si sfascia e si sgretola.
Mai aggrapparsi all’amore! Lo renderei mio, cioè sulla
mia misura di essere finito, che si chiude; e così chiuderei
anche me stesso all'amore; Esso rimarrebbe, tutto quanto
sì, ma FUORI di me.
In questo senso, fregarsene di tutto quanto si possa pensare
e dire dell’Amore, cioè relativizzare tutto, diventa la
via per scoprire presente nella vita questa realtà.
Sono le parole di quel santo che esprimeva tale atteg -
giamento in questo modo: “Ama e fa’ ciò che vuoi”.
Ama, e fregatene... potremmo dirla banalmente; e proprio
quando te ne freghi, scopri meglio la realtà dell’amore più
vicino... Ma, non attaccar ti! Fregatene, dell’idea che ti si
può creare di Esso... E così sentirai e gusterai ancor più da
vicino questa vicinanza... Ma non attaccarti, neppure ora,
no... Fregatene, relativizza anche queste impressioni e non
renderle mai delle definizioni... Uccideresti in te l’efficacia
dell’amore... ... E continua così... Fino a quando? -
viene da dire. Sempre, così, perché l’Amore non si può
mai esaurire, né scoprire, né definire... Sarà la sua stessa
presenza a mostrarti se esiste la mossa finale, o se dovrai
continuare sempre così... Intanto, sì, devi continuare... Se
ti fermi, l’Amore viene ucciso in te.
Le parole, i segni, la Chiesa, i ragionamenti...
Fregarsene di tutti? Relativizzare sempre?
Certo!
Mai devi contare su di loro; mai devi dire: me lo dice
la tal parola, il tal segno, me lo dice la Chiesa, me lo dice
il ragionamento cos’è l’Amore... NO! Nessuno ti può dire,
al di fuori di te stesso, ciò che è l’Amore, perché Esso è
talmente vicino e amante di te da non restare FUORI, ma
da presentarsi dentro la tua stessa vita. Già, essa, proprio
tu, sei il luogo della nascita o della morte della efficacia
dell’amore, dell’Amore stesso. Ogni altra realtà è destinata
ad essere un aiuto a rientrare in te per riscoprire, nel
profondo, la presenza dell’Amore.
Fregarsene anche di Dio?...
Fregarsene di sé, di me stesso, si può in un certo senso
anche comprendere, come la presa di coscienza che noi
non siamo né mai potremo esse re la sede della verità e
della realtà... Ma che fine fa Dio, in queste considerazioni?
Anche Lui, destinato ad essere relativizzato? SÌ,
ANCHE LUI, PRIMA DI OGNI ALTRA COSA; è proprio
Lui la realtà da relativizzare, nella nostra vita di fede, con
la priorità assoluta, rispetto alle altre cose; esse, infatti,
sono da noi considerate meno importanti, rispetto a Lui, e
quindi anche nelle decisioni e nelle scelte di vita, le teniamo
in poco conto, non giungono ad influire con intensità
e profondità nella vita, come invece può essere il fatto di
vedere e considerare Dio in un certo modo o in un altro...
Ma noi, non possiamo considerarlo, mai, Dio, IN NESSUN
MODO! Quindi, ecco che Dio è colui che va con più
urgenza relativizzato, per poter sentire e gustare l’a more
del Vangelo.
Altrimenti, avremo solo oggetti e prodotti per le nostre
discussioni, da esibire e da vendere come buoni istruttori
della catechesi, come buoni predicatori delle cose della
fede, come buoni propagatori della religione cristiana...
Ma non avremo mai a che fare con quell’AMORE del
quale ci parla Gesù, l’amore del Vangelo. Nessun Dio si
può fissare nella nostra vita, NESSU NO!
Nemmeno il più buono, nemmeno il più potente, né
quello vero, né quello che dicono i preti, né quello che
dice una religione, e nemmeno, infine, quello che dico io,
cioè il MIO. No... Perché in tutti questi casi non si tratta di
amore, ma di egoismo, di realtà umane che dietro l’immagine
presentata non hanno altro che se stesse.
L’amore, allora, dov’è? È finito, legato cioè a queste
realtà che vengono dalla finitezza e dal limite umano.
“Non avrai altro Dio all’infuori di me...”. Chi pronuncia
queste parole, come invito a scardinar ci, a fregarcene
di ogni altro dio, se non colui che parla?
Già, chi è colui che parla?
Non è certo il mio Dio, quello che penso io e ho a mia
immagine; né quello della religione, no; nemmeno quello
della Chiesa, no; non è nessuno degli dèi, anche se li chiamo
DIO. E allora, chi parla?
Ed eccoci allora all’iniziale domanda: cos’è mai questo
amore del quale ci parla il Vangelo?
Relativizzando tutto quanto arriva a noi, fregandocene
di tutto, compreso di noi stessi, si renderà presente ciò che
è impossibile definire e descrivere, ciò che potremo sentire
e gustare nella vita: l’Amore.
Fregarsene... La via che conduce all’amore... Mah!...
...“Tuo”...
Tuo: è possessivo... Parlando di Dio? Il “tuo” Dio?
Amerai il Signore Dio “tuo”.
Sì, grammaticalmente, è possessivo. È il “mio” Dio,
quello che è di me, che appartiene a me.
Preso alla lettera, questo invito ad amare Dio come il
“mio”, si rivela subito essere l’annientamento di Dio, l’uccidere
Lui stesso attraverso il mio possederLo, il renderLo
“Mio”. Amare il “mio” Dio, preso alla lettera, significa
proprio: ucciderLo in me.
Grammaticalmente, il possessivo porta ad applica re
all’amore la morte.
San Paolo già diceva, a questo proposito, che: “La lettera
uccide, lo Spirito da la vita”. Prendere alla lettera il
Vangelo, secondo le nostre regole, significa annientarne
l’efficacia nella nostra vita.
E allora?
Lo Spirito... Occorre risentire l’invito di Gesù, attra -
verso la voce di Dio stesso, cioè nella fede. Usando un termine
che è improprio, perché nelle distinzioni della grammatica
non esiste, potremmo dire che quel “tuo”, nella vita
della fede, è soprattutto “PRESENTIVO”: cioè che rende
presente a me, che fa appartenere, ma nel senso dell’essere
io par tecipe di una realtà: quella di Dio. Rimane il significato
“possessivo”, ma esso viene rivestito di un nuovo e
superiore significato, che non si può certo trovare scritto
nel vocabolario materiale, ma solo in quello spirituale,
quello della fede: Dio che è mio, nel senso che si rende
parteci pe della mia stessa vita, e io quindi sono partecipe
della sua.
Tuo: “PRESENTIVO”, nella fede.
Un essere “tuo” di Dio, che quindi non sottolinea affatto
il possesso di questa realtà in base alla mia opera, ma
mette in evidenza la Sua presenza come dono, che avviene
nella fede, che rende partecipe, appartenente, la mia
realtà a quella di Lui, perché Lui stesso, attraverso lo
Spirito, si è fatto “mio”, presente a me.
Dio è “tuo”, non perché lo si possiede; se così fosse, non
avresti in mano nient’altro che te stesso, la tua immagine e
opinione di Lui, la sensazione che tu ne hai. Dio è “tuo”,
perché attraverso il dono della fede ti accorgi che Lui è più
presente a te di te stesso, è più vicino ancora del mio stesso
io, è più “me” di me stesso; in questo senso, è “mio”.
Questo accorgersi della fede si rende possibile quanto più
lascio la logica del possesso di ogni cosa, di Dio stesso per
me, e indosso la veste della fede, quella veste dell’”uomo
nuovo” che rende novità non solo l’abito, ma l’identità
stessa di me: essere cristiano, cioè uomo nuovo in Cristo,
fattosi “mio”, cioè più vicino a me di me stesso. Che vale
il farsi vicino di Dio, se il mio “io” sussiste? Resterebbero
sempre separati, non uniti nella stessa realtà: l’amore.
Ma... l’amore allora annulla?...
Se Dio, il “mio”, si fa presente, e il mio “io” scompare,
non è un annientamento della persona, que sto, mentre prevale
soltanto Lui? Se è Lui a venire non come il “mio” nel
senso del possesso, ma della presenza a me, dove vado a
finire io? Scompaio?
L’amore annulla, sì... Annienta quell’”io” che soffoca
me stesso quale immagine di Dio; sì, che annienta, questo
amore... Ma tutto ciò che è l’”io” falso, non vero.
Lo annulla, mentre fa riemergere, in me, ciò che mi
deve essere veramente vicino, perché vi sia la vita: Dio, la
sua realtà.
Io sono Dio, allora?
No, no... Un rapporto di amore che non annulla, ma
approfondisce, nel rispetto della libertà piena, ogni identità.
Tu, diventi sempre più tu, nell’amore. Dio, si rende presente
sempre più come Dio, nel l’amore.
Proprio come fa Lui stesso: UNO E TRINO: una unità,
nella diversità: un amore che nel rapporto approfondisce,
con un’unica realtà, ciò che ognuno è.
L’amore non annulla, potenzia.
Potenzia l’efficacia di Dio in me stesso, quanto più io,
dimenticandomi come l’”io” finito, riscopro di essere un
“IO” immagine di Dio.
Proprio allora, mentre anniento il mio “io”, lo riscopro.
Potenziato della presenza di Dio, l’onnipotente.
Respirerò dell’Onnipotenza.
Mentre rinnego il mio “io”, cioè quel me stesso che
sono io stesso a costruirlo, come se fossi io Dio... Quando
smetto di essere questo “io” che non può sussistere, e
butto via questo “io” da me stesso, ecco che allora mi
sento vuoto... Quel vuoto positivo che mi rende possibile
l’avvicinarsi di Dio stesso, del suo Spirito... Non per prendere
il posto mio, di ciò che sono, ma per farmi rendere
conto di ciò che veramente sono, di quello che veramente
è il mio “IO”: partecipazione di amore con Lui. Non solo
Dio si fa Amore in me, ma io stesso scopro me stesso
come Amore: fatto per Lui. “Il nostro cuore (io) è inquieto,
finché non riposa in Te”: il riposo dell’Amore: l’eterno
riposo. Dovremmo augurarcelo, ogni giorno: “L’eterno
riposo, donaMi, Signore...”
Amore Dio. Io
Il rapporto d’amore con Dio mi potenzia, nel senso che
mi fa riscoprire sempre più come divino, fatto a Sua
immagine; e Dio stesso, si rende presente, ma non come
“mio” possesso: come presenza infinita... Che, col soffio
del Suo Spirito, mi dice: puoi esserlo anche tu.
...“Con tutto”...
Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta
la tua anima, con tutta la tua mente.
Non è un invito allo sforzo, questo. Non è da intendere
come un cercare di sforzarsi con il cuore, con l’anima e
con la mente... No. Lo sforzo rischierebbe di indurci
all’agitazione, alla preoccupazione, e alle paure per non
riuscire; inoltre, se fosse lo sforzo ciò che ci viene chiesto,
amare risulterebbe non un dono ma una nostra opera. È
l’invito alla disponibilità: fare spazio, liberare il cuore,
l’anima, la mente da noi stessi, perché vi entri l’amore.
Ciò non richiede tanto lo sforzo, ma l’accorgersi che
l’amore c’è, l’aprire gli occhi della fede. Non è tanto un
invito a impegnarsi perché il cuore, l’anima e la mente
amino, sempre più, del tutto; è invece l’accorgersi che Dio
ama, e rendere disponibile cuore, anima e mente perché
l’amore si renda presente in essi, totalmente, in pienezza.
Il cuore, l’anima e la mente sono quelle realtà attraverso le
quali Dio si fa presente a noi. Il nostro impegno non è quello
di costruire in essi l’amore, ma di lasciare che l’amore si
renda presente in essi, attraverso la nostra disponibilità. E
ciò ci fa comprendere che l’amore non è mai una realtà di
nostra iniziativa, ma è sempre risposta all’iniziativa di Dio;
una risposta non passiva, atti va, attraverso le scelte del
nostro sì a Lui; ma la prima scelta, la prima azione e il
primo passo sono fatti dall’amore, da Dio.
“Tutto”: come sarebbe possibile che tutto di noi fosse
in Dio, partendo da noi stessi? Mai vi riusciremmo.
‘Tutto” si può rendere presente in noi, se la realtà parte
da Dio: Lui, sì, totalmente, si può rendere pre sente in tutto
il nostro cuore, in tutta la nostra anima, in tutta la nostra
mente: nella nostra vita, quando la disponiamo alla sua
iniziativa di amore.
Cuore, anima e mente sono i luoghi attraverso i quali
Dio si rende presente a noi, totalmente. Amerai il Signore
Dio tuo con tutto il cuore: l’amo re si rende presente attraverso
il tuo cuore in modo pieno, riempiendolo di esso.
Amerai il Signore Dio tuo con tutta la tua anima:
l’amore si propone come realtà che colma la tua anima,
che rende viva l’anima.
Amerai il Signore Dio tuo con tutta la tua mente:
l’amore si propone come realtà che orienta e guida il tuo
pensare. Tutto resta “tuo”, non si annienta; viene animato
dalla presenza di amore che Dio ti propone, in totalità e in
pienezza.
Amerai II Signore Dio tuo
il Signore Dio tuo ti ama
con tutto il cuore, in tutto il cuore,
con tutta la tua anima, in tutta la tua ani ma,
con tutta la tua mente, in tutta la tua men te.
Il comandamento non è solo un invito all’uomo ad
amare. È, soprattutto, l’affermazione della proposta di
Dio, alla quale si invita poi l’uomo a rispondere.
Il comandamento, prima che essere dell’uomo, è di
Dio. Prima che essere la risposta che l’uomo è invitato a
dire, è la proposta che Dio stesso fa. Il comandamento
appare essere allora non tanto un comando, come può
essere considerato dall’uomo, ma l’affermazione di un
“mandamento”, cioè di un “mandato”: il mandato dell’amore,
che è proprio di Dio, e al quale l’uomo è invitato
a partecipare.
La missione dell’amore. Il mandato di amore.
Nel termine latino, comandamento è espresso, infatti,
con “mandatum”.
Al di là della semplice interpretazione del coman -
damento come un comando, appare allora il significato di
esso come l’affermazione di ciò che è Dio e di ciò che
dovrebbe essere la vita dell’uomo: un mandato d’amore.
Dio, per amore, invia suo Figlio; per amore, Egli
manda lo Spirito; e per amore, lo Spirito manda l’uomo,
suscita in lui questo mandato: l’amore. Il mandato dell’amore
si realizza in me quando dico di sì all’affermazione
di Dio, che si propone come colui che mi ama, in tutto
il cuore, in tutta la mia anima, in tutta la mia mente; cioè,
colmando dell’amore tutta la mia vita.
Obbedire al comandamento dell’amore significa dire sì
a Dio che si propone a me come amante. Dio è colui che
si fa inviato d’amore per l’uomo; e propone all’uomo di
realizzare così la propria esistenza: come un mandato di
amore, animato da Dio stesso e volto all’apertura agli altri.
È il comandamento più grande perché ci fa avvicinare alla
realtà di Dio e dell’uomo nelle loro profondità: Dio è colui
che ama; e all’uomo viene proposto di realizzarsi nell’essere
mandato per amare, uscendo da se stesso e realizzandosi
alla luce di questo comandamento dell’amore. È il
comandamento più grande, e il primo, perché è il più vicino
a Dio e il più vicino a ciò che è, nel profondo, la realtà
dell’uomo: un mandato del l’amore.
Disobbedire al comandamento significa, a questo
punto, non solo non essere più in grado di riconoscere Dio
come tale, ma anche non riconoscere più nemmeno se
stessi come uomini, non riuscire più a vedere noi stessi
nella verità più profonda di ciò che siamo.
“Il secondo è simile al primo:
Amerai il prossimo tuo come te stesso”.
Dio giunge a me attraverso il prossimo, attraverso il
segno di chiunque mi si fa vicino. Il prossimo, che, come
Dio, si fa “mio”, cioè presente a me, perché io accolga
l’amore. “Come te stesso...”: come colui che porta, come
me a me stesso, la presenza di Dio. Come io, accogliendo
in me la realtà dell’amore, scopro la possibilità di gustare
la presenza di Dio, così il prossimo, accolto da me come
un “me stesso”, diventa l’occasione per l’incontro con
Lui. Proprio come io, nonostante le mie pecche e i miei
difetti, ho la possibilità di accogliere l’amore, così il prossimo:
nonostante le sue pecche e i suoi difetti, rivela a me
la possibilità di accogliere e sentire Dio nella mia vita.
Dio mi propone non direttamente e apertamente il suo
amore, ma attraverso il segno del prossimo; esso è la
garanzia che ciò che sto incontrando veramente è Dio, e
non il “mio” dio, un idolo, un falso. Infatti, il prossimo,
ogni volta che si avvicina a me, diventa occasione per me
di scoprirmi come più disponibile, aprendo di più il cuore,
l’anima e la mente a lui, e quindi a Dio e alla sua presenza;
può anche succedere che, di fronte al prossimo che si
avvicina, il mio atteggiamento mi faccia scoprire come un
incapace ad accogliere: allora, esso è l’occasione per farmi
prendere coscienza che ho ancora del cammino da fare
perché si possa realizzare quel “tutto” della tota le disponibilità,
che mi permette l’incontro con Dio.
Amerai II prossimo tuo
il prossimo tuo ti rivela l’amore
come te stesso secondo quello che tu sei.
Se dietro il prossimo si nasconde l’amore del Vangelo,
è anche vero che questo amore si rivela, a seconda del
nostro atteggiamento in positivo che assumiamo nei confronti
di chi a noi si fa vicino. Il prossimo è segno dell’amore.
Se rifiutiamo il segno, non vediamo questo amore
in noi né fuori; se lo accogliamo, scopriamo la presenza
dell’amore dentro e fuori di noi. Anche questo comandamento,
“simile al primo”, più che comando è una affermazione:
il prossimo tuo ti rivela l’amore, secondo quello che
tu sei nei suoi confronti: se sei aperto, sentirai e gusterai
l’a more del Vangelo; se chiuso a lui, l’amore del Vangelo
resterà sempre più lontano e inutile per la tua vita... Anche
se lo chiamerai sempre amore. Il prossimo ti aiuta ad esprimere
quello che devi essere in verità: colui che realizza il
mandato del l’amore fuori da sé, verso l’altro, verso Dio. Il
prossimo non è Dio... come, d’altronde, io non sono Dio:
egli è l’occasione che Dio stesso mi pone accanto perché,
nell’accogliere questo segno, io mi renda sempre più, nella
totalità assoluta, disponibile alla Sua presenza.
Possiamo raggiungere ora la disponibilità assoluta?
Sì.
La perfezione, quella no; ma la perfetta disponibilità,
quella sì... anche con la presenza del peccato, l’ineliminabile
realtà di ognuno di noi. La pienezza della disponibilità
si raggiunge già ora, quando io mi atteggio con disponibilità
a Dio e al prossimo, anche se poi, al momento dell’incontro
con essi, posso essere (lo sarò sempre) inca pace
di accogliere con la perfezione degli atteggia menti Dio o
il mio prossimo. Nonostante le pecche e le incapacità a
vivere l’accoglienza in modo perfetto, posso vivere nella
disponibilità assoluta ogni volta che dico al Signore e al
prossimo: vorrei dire sempre di sì a voi, anche se vedo che
il mio peccato mi impedisce ancora e sempre di farlo. Non
è questo il sì solo delle parole, no. È dire sì a Dio e al prossimo
con il cuore, la mente e l’anima: ecco perché è pienezza;
anche se poi, di fronte alla tentazione del peccato,
mi scopro inca pace di realizzare la perfezione. Ma è proprio
il momento del peccato, allora, che mi fa rimanere
nella piena disponibilità, ogni volta che io, scoprendomi
peccatore, mi ritengo bisognoso degli altri e di Dio. Ecco
il passo verso la pienezza della disponibilità: scoprirsi
peccatore, bisognoso, cioè aperto a riceve re amore.
Nella Messa, il momento centrale della fede cristiana,
la Chiesa, pur peccatrice e fallibile, viene resa “perfetta
nell’amore” dal sacrificio di Cristo. Egli, mostrandosi
come colui che muore per i nostri peccati, ci fa scoprire
peccatori e bisognosi della salvezza... E rendendoci conto
di essere tali, nell’Eucarestia noi ci uniamo alla morte di
Gesù e partecipiamo alla sua Resurrezione, già ora,
attraver so quel frutto, quel dono che Egli, il Risorto, ci dà:
essere “perfetti nell’amore”, pieni di questa realtà, attraverso
l’incontro con Lui, nella comunione. Dopo questo
incontro, pur avendo sperimentato, anticipandone la situazione
finale, la realtà della perfezione nell’amore, ci scopriamo,
nella vita, peccatori e caduchi... Per questo ritorniamo
alla fonte e alla più alta realtà della fede,
l’Eucarestia, che ci reintegra nella perfezione dell’amore,
della piena disponibilità, aiutandoci, nel cammino della
vita, a porre sempre più, accanto alla perfezione dell’amore
che Dio ci dona, anche la perfezione della vita, con il
nostro impegno; quest’ultima è un cammino sempre in
atto, fino a quando il Signore stesso vorrà... Quando, pienamente,
l’Amore si rivelerà a noi non solo come proposta
ma anche come atto perfetto di una nostra risposta.
L’essere perfetti nell’Amore
in San Francesco: la “perfetta letizia”
“... Se noi tutte queste cose sosterremo paziente mente e
con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le
quali dobbiamo sostenere per suo amore; o frate Lione,
iscrivi che qui e in questo è perfetta letizia”.
(Dai Fioretti di San Francesco)
Ecco la perfezione dell’amore, che, oltre che nel
momento dell’Eucarestia, viene concessa come un dono.
La disponibilità a tutto quanto, vivendo nell’esempio di
Gesù. Quella letizia, quella serenità, quell’amore che non
è affatto un impegno della persona, ma che prima di tutto
è un dono, del quale non ci possiamo gloriare, che non ci
possiamo vantare di avere, in quanto è dono, gratuità.
“...In tutti gli altri doni di Dio non ci possiamo gloriare,
però che non sono nostri, ma di Dio...” con inua la testimonianza
del Fioretto; gloriarsi del dono di Dio, significa
renderlo nostro, vanificarlo nella sua efficacia, svuotarlo
della sua grazia, del l’amore che in se stesso esso reca,
come dono. Vantarsi dei doni di Dio non ha senso, perché
è ridurre l’amore a una realtà mia, e quindi non può più
apparire come un dono di Lui, del suo immenso amore.
“...Ma nella croce della tribolazione e dell’afflizione ci
possiamo gloriare, però che dice l’Apostolo: ‘Io non mi
voglio gloriare se non nella croce del nostro Signore Gesù
Cristo’ “, così si conclude il Fioretto della Perfetta Letizia.
Gloriarsi del dono della Croce di Cristo in sé: ecco
l’occasione di ciò che il Santo chiama: “perfetta letizia”.
Nessuno degli altri doni è occasione di un atteggiamento
che ci porti a gloriarci di esso, proprio perché partendo da
ciò che esso contiene, possiamo ridurlo a una realtà nostra;
l’occasione della Croce di Cristo ci può condurre a gloriarci
di essa, perché essa nulla contiene, essendo il totale
annienta mento, e quindi non può dare occasione di render -
la una nostra realtà.
Nessuno mai si gloria di ciò che è annientamento totale;
a meno che, come per San Francesco, comprenda che
esso è l’inizio e il senso di tutto... E, credendoci fino in
fondo, lo testimoni anche con la vita. Allora, ecco la perfezione
dell’amore: la “perfetta letizia”.
Perfetta letizia, allora, diventa per noi l’affermare di
essere disponibili a tutto, a condividere la stessa Croce di
Cristo, perché in essa Egli ci dona la Risurrezione, la “perfetta
letizia”. Solo il dono della Croce ci porta a gloriarci
di esso, non solo perché lo testimoniamo come inizio e
senso di tutto, ma perché esso anticipa in noi, già ora, la
Gloria stessa.
Ecco perché di essa ci si deve gloriare.
“...Cuore... Anima... Mente... Te stesso...”
Sono come i gradini del piacere, che conducono
all’amore.
Gesù, nella proposta dell’amore, non parte dal pre -
sentarci una realtà ideale, lontana, astratta, ma una situazione
che possiamo realizzare partendo proprio da noi, da
ciò che fa parte del nostro essere uomini, persone: il cuore,
l’anima, la mente, noi stessi. L’amore non è un dono che
discende dal cielo, come una realtà staccata dal nostro esistere,
separata; ma discende per raccogliere ciò che noi
siamo chiamati a essere pienamente, e che già possediamo,
in parte. Per valorizzarci, il Signore non parte dal suo
dono portato su di noi come fosse una realtà separata e
diversa da ciò che noi siamo, ma parte proprio dal nostro
orgoglio, che, vissuto in senso positivo, diventa la spinta
per salire dal piacere, da ciò che ci piace, all’amore, a ciò
che vale. Gesù ci invita a riscoprire la realtà dell’amore,
par tendo proprio dalla realtà del piacere: dal cuore... Da
ciò che noi facciamo partire da noi stessi come una realtà
piacevole.
E così, noi stessi: “...Te stesso...”. È questo il luogo
della scelta: o per te stesso, per il tuo piacere (ecco la
prima possibilità), o da te stesso, verso l’amore (ecco la
seconda possibilità).
Me stesso, quindi il mio orgoglio... È questa la realtà
sulla quale siamo chiamati ad operare, di fronte alla proposta
dell’amore, la scelta: o per me, o attraverso di me,
per qualcosa di più grande: l’amore.
Appare necessario, oltre a richiamare l’iniziale quesito:
che cos’è questo amore del Vangelo, sottolineare che
l’amore passa non sopra, ma attraverso di noi, com -
prendendo anche quelle realtà che si possono rivelare, con
le nostre scelte, il luogo dove l’amore muore. Nel cuore,
ognuno di noi, di fronte alla proposta dell’amore, decide
di vivere il proprio cuore come una fonte solo per sé,
oppure aprire questa realtà a qualcosa di più grande:
l’amore. Il cuore come fonte dell’amore per sé, o come
fonte dell’accoglienza dell’amore proposto dal Vangelo.
L’anima, come realtà per sé, o come aperta a una vita più
grande: la vita dell’amore.
La mente, come realtà che considero solo come attività
decisionale mia, oppure anche aperta alle considerazioni
che l’amore suggerisce. Infine, me stesso, come realtà
aperta a un Me Stesso più grande, che addirittura si scopre
infinito, reso tale dalla presenza dell’Amore, oppure come
un me stesso sufficiente a sé, che non ha bisogno, che si
basta... Che dice: basta, all’amore che si propone, rendendolo
“finito”, e quindi, rendendosi finito. Cuore, anima,
mente, me stesso... Sono come dei passi, attraverso i quali,
con l’atteggiamento della disponibilità, ci avviciniamo
sempre più a un cuore, un’anima, una mente, un me
stesso più grandi: l’Amore.
Un Amore che mi rende infinito, partendo dalla finitezza.
A questo punto, possiamo dire che la proposta del
“primo” dei comandamenti ci chiede di essere noi stessi,
fino in fondo, nella totalità e nella pienezza delle nostre
realtà.
Il Signore ci propone non di fare qualcosa per lui, ma
di fare qualcosa di importante e di fondamentale per noi:
essere noi stessi fino in fondo, riscoprirci come tali.
Ciò richiede, da parte nostra, una Conversione... Non
però direttamente a Lui, no. Una conversione ancora su di
noi, un “pentirsi” e convertirsi iniziando a guardare meglio
in noi stessi. Convertirsi non significa prima di tutto fare il
passo verso Dio, ma anzitutto rivolgere meglio i passi verso
di noi, perché, poi, anche i passi che compiremo verso Dio
siano più significativi e profondi. Dio non ci chiede di rivolgerci
direttamente a Lui, ma, attraverso il “cuore”,
l’“anima”, la “mente”, “noi stessi”, “il prossimo”.
Queste sono le realtà che ci fanno recuperare la
Conversione a Lui come una situazione di grazia che parte
dal dire di sì a quelle grazie che Dio pone le più vicine a noi.
Cuore, anima, mente, me stesso, il prossimo... Sono
queste le grazie che Dio ha posto per me, per ché io mi
converta, attraverso di esse, a Lui... PIENAMENTE...
Perché cosa ci può essere più pieno in me di me stesso?
L’amore rende possibile dire il SÌ a queste realtà dentro
di noi, perché veramente divengano occasione per vivere
il rapporto con Dio in un modo non separato, ma profondamente
unito. Dire di sì a Dio che considero come una
realtà che mi si propone da fuori, certo non è una risposta
negativa... Ma resta esterna, superficiale e profondamente
ambigua, in quanto Dio rimane il separato, il diverso da
me... Solo questo. Dire di sì a Dio partendo dal cuore... Da
ciò che sono, questa è invece la decisione più profonda,
quella della conversione vera, che implica il dirigere me
stesso a Lui, e non tanto il dirigersi di Lui su di me.
Qui, allora, non vi è più ambiguità, perché Dio diviene
il CUORE del mio cuore, l’ANIMA della mia anima, la
MENTE della mia mente, il ME STESSO di me stesso, il
PROSSIMO del mio essere prossimo. Non identificazione,
ma rapporto profondo di amore, nel quale il mio sì
assume una profondità notevole, totale: “...Con tutto il
mio cuore, con tutta la mia anima, con tutta la mia
mente...”. Il cuore resta il “mio”, così l’anima, così la
mente, così io stesso, rimango io... Ma lo divengo piena -
mente, nel rapporto valorizzante dell’amore che mi si era
proposto e che io, ora, accolgo. Conversione è volgersi a
Dio... ...Non volgersi a quel Dio che mi si propone da
fuori di me: “Non avrai altro Dio al di fuori di me”: un Dio
che si propone da fuori non ha nessuna consistenza... È
volgersi a quel Dio che, in te, si propone come una realtà
infinita, e che ti invita ad essere anche tu così: aperto
all’infinito, nell’essere partecipe del suo Amore.
“Maestro, qual è il più grande
Comandamento della Legge?”
Di fronte a questa iniziale domanda posta a Gesù, Egli
risponde sottolineando che il comandamento che dà senso
a tutto quanto, a ogni comandamento, a tutta quanta la
Legge, è l’amore. La risposta di Gesù è aperta, non è una
definizione... Questo è già stato sottolineato: Gesù non
risponde con una chiusura della questione, ma aprendo
tutto quanto, perché, di fronte alla sua risposta:
“Amerai..”, tutto quanto inizia, da parte dell’ascoltatore,
come una ricerca che si prospetta sempre più profonda.
È l’ascoltatore stesso, ora, che, di fronte alla risposta
stimolante di Gesù, si apre alla ricerca, partendo da se
stesso, di ciò che è l’amore.
Gesù ha risposto: è l’amore.
Già, ma - era l’iniziale questione che ci aveva messo a
cercare - che cos’è l’amore?
Tutto, quindi, con la risposta di Gesù, si apre; chi ascol -
ta viene stimolato a cercare, nella propria esperienza della
vita, che cosa sia questa realtà che è IL PIÙ GRANDE
COMANDAMENTO, il senso di tutto quanto.
Il più grande comandamento, ci vuol dire Gesù, non è
uno dei comandamenti, ma ciò che dà senso e significato
a tutto: l’amore. La sua risposta contiene già una proposta:
cercalo, vivilo.
La risposta di Gesù apre alla ricerca.
È un invito ad accogliere.
Di fronte alla domanda posta, circa il più grande dei
comandamenti, Gesù risponde indicandone due. Gli è stato
chiesto uno, risponde due. Amore verso Dio, apertura a
Lui... Sì, la realtà più grande, ma anche la più pericolosa;
quante perso ne, aprendosi a Dio, si sono ridotte a ritenere
Dio come una realtà di se stessi, a ridurlo al proprio io... Un
amore illusorio, un amore sopra il mondo, quasi un rifugio,
un dire: io amo Dio, il resto non conta nulla!
Ecco perché Gesù sottolinea il “secondo, simile al
primo”: ne è la garanzia: amore verso il prossimo, che
garantisce che l’apertura dell’amore è effettiva e non una
mia e pia illusione; che non rischia di diventare un rifugio,
ma, nel confronto con chi mi si fa prossimo, è un amore
sempre più fedele e grande. Questo è il primo e il più grande
dei comanda menti, dice Gesù: amare Dio e il prossimo.
Essere aperti a Lui e al prossimo; e, primo fra tutti i prossimi,
colui che è il più prossimo a me: me stesso. Essere
aperto a me stesso, ponendo il mio cuore, la mia anima e
la mia mente come delle realtà di apertura a ciò che di
grande e di primo si propone a me: l’amore.
Dio... Il prossimo... Me stesso... E di nuovo, più profondamente:
Dio... Prossimo... Me stesso... Ecco il cammino
di ricerca dell’amore.
Definire l’amore con l’indefinibile...
Possiamo definire l’amore? No, l’amore è indefinibile,
come definizione. Lo possiamo raggiungere e toccare,
senza mai poter lo trattenere, definendolo con una realtà
indefinibile. È quello che fa San Giovanni, quando, nella
sua testimonianza, ci annuncia: Dio è amore.
L’abbiamo definito, l’amore?
No; l’abbiamo solo toccato.
È ancora lui, Giovanni, che, come testimone, afferma:
“Ciò che noi abbiamo veduto, ciò che le nostre mani
hanno toccato, lo annunciamo a voi”. L’incontro con l’indefinibile,
con l’amore, con Dio, è possibile, non come
una definizione, non come un momento finito, ma che si
apre alla testimonianza. Giovanni, annunciando l’indefinito
che egli in sé sperimenta, pur avendolo toccato, come
l’intoccabile e pur avendolo veduto, come l’invisibile,
dice che Dio è amore... Già, ma che cos’è l’amore? Già,
ma che cos’è Dio?
Né uno, né l’altro, vengono definiti... Solo toccati,
attraverso la disponibilità ad essi, perché siano comunicati.
E in questa comunicazione della testimonianza, nasce la
comunione: “...Affinché voi siate in comunione con noi”.
Attraverso la testimonianza dell’esperienza che è legata
al fatto di aver toccato e sperimentato, l’esperienza si
allarga e si rende infinita nella testimonianza della comunione
con gli altri, del comunicare cioè una realtà che, al
di là di chi ha veduto e toccato, fa comunione tra tutti:
l’amore. A Giovanni non interessa tanto il comunicare la
sua esperienza: di aver veduto, toccato... Ma che, attraverso
questa occasione, si ripete, anche ora, in chi ascolta la
sua testimonianza, il prodigio opera to dall’amore: la
comunione. A Giovanni non interessa tanto il comunicare
CHE c’è stata una esperienza, ma il PERCHÉ ce n’è ora
un’altra, più profonda: la comunione. Egli ci comunica la
sua esperienza: “...Perché siate in comunione”, sottolineando
così che la forza della comunione è la testimonianza
dell’amore. Non è Giovanni che fa comunione, ma, attraverso
di lui e con la sua testimonianza, ognuno degli ascoltatori
di quella sua esperienza, ne scopre un’altra più profonda,
che supera pure il testimone: l’amore. Il perché della
comunione è l’amore. Perché cresca la comunione, per
poter quindi scoprire la realtà dell’amore, di cui siamo sempre
in ricerca, occorre che ognuno di noi, come Giovanni,
renda la propria esperienza una testimonianza.
Dalla finitezza dell’esperienza, quale può essere toccare,
vedere... si giunge così alla realtà infinita ed eterna che
la testimonianza che parte dall’esperienza stessa ci comunica:
l’amore.
Predicatori...
Oggi, che farsene di questi predicatori delle cose di Dio
che, ovunque, dalle piazze alle chiese, dalle strade alle
riviste, cercano di farci capire cos’è l’amore?
Tanti, troppi forse, ci dicono che l’amore è... questo o
quello, che amare significa così e così...
Discorrono per noi e predicano a noi questa realtà, non
ricordandosi che essa è impossibile da rendere un concetto
definito, un’idea. Hanno ridotto, spesso, l’amore a una
opinione, a un’idea, a un bel discorso, che noi tutti possiamo
comprendere, fino in fondo; e alla fine diciamo: a che
serve, nella vita?
Non mi coinvolge... Oltre a dire: sì, un bell’argomentare,
sono d’accordo con te su quello che stai dicendo, poi
però non resta più nulla.
Che mi testimonia il predicatore dell’amore di oggi?
Spesso, a quanto pare, solo delle parole astratte, che
mai vengono poste in considerazione nella vita.
Maestri, tanti si dicono; testimoni, pochi lo sono.
E tutti noi, che ormai siamo abituati a cadere in questa
trappola di morte, ascoltando il discorso sull’amore, senza
mai sperimentare ciò che esso è in noi... Ascoltiamo; poi,
tutto come prima, secondo ciò che noi pensiamo e viviamo,
con i nostri schemi di vita che di amore non hanno
altro che la facciata, non la vita. L’amore è stato reso
ormai un discorso al quale ci siamo abituati, al quale
anche i predicatori del nostro tempo si sono abituati: parlare
di amore, di qua e di là, in lungo e in largo, senza mai
toccare l’esperienza di esso; definito, non più vissuto.
Le parole dette dai predicatori di oggi, non portano più
amore. Parlano, discorrono, delucidano, spiegano... Ma non
fanno gustare e sentire ciò che l’amore è. Nel nome dell’amore,
l’amore stesso viene trascurato e oscurato.
Mentre si parla di esso, invece di dare la possibilità di
viverlo come esperienza, lo si nasconde nelle stesse parole,
che sono divenute le realtà più importanti; dimenticando
che l’amore, proprio al di là delle parole e delle definizioni,
appare come il vivente. Predicatori dell’amore, non
più testimoni di esso. Destinati al fallimento, perché il
discorso vola sulle teste, in alto, lasciando ogni ascoltatore
sempre più convinto di ciò che egli, soggettivamente,
sta vivendo come “amore”, come la realtà più vera.
Predicatori che con la parola nascondono la realtà che
sta al di là e oltre essa: l’amore; invece che rivelarlo come
quella realtà che sta al di là di ogni parlare.
Predicatori dei discorsi e delle parole che muoiono,
delle idee... Non della realtà viva ed eterna. Predicatori
che vogliono far capire che la parola dell’amore è un parlare,
mentre non riescono ancora, essi stessi, a vivere la
parola come un par lare del silenzio, il silenzio dell’amore,
che trionfa su ogni parola.
Ascoltatori...
E chi ascolta, ormai si abitua a essere il ricevente, passivo,
di una bella omelia e di un bel discorso, che poi,
nella vita, viene subito dimenticato. L’ascoltatore di oggi
sa già quello che sentirà del l’amore: una realtà di parole,
un prodotto, più o meno ben confezionato... e nulla più.
L’ascoltatore di oggi non è più alla ricerca dell’a more,
perché neppure più si attende da colui che annuncia uno
stimolo in questo senso; egli accoglie, come una realtà già
fatta e definita, ogni situa zione che gli viene posta di fronte
come “amore”.
Non si cercano più, da parte degli ascoltatori, degli stimoli...
Solo cose già fatte e finite, proprio come al supermercato.
Non ci si ricorda più nemmeno che il discorso
del l’amore è sempre uno stimolo e uno spunto a cer care,
mai un discorso chiuso. Oggi, invece, piacciono i discorsi
sull’amore quanto più sono chiusi, cioè finiti, ben fatti
nelle parole... Essi, così, non portano la coscienza a risve -
gliarsi e a cercare l’esperienza, ma la lasciano sempre più
nella quiete e nella morte, nell’apatia. Ascoltando, invece
che aprirsi alla realtà dell’amo re, ci si chiude ad esso.
Se, da parte dei predicatori, c’è il male della poca e
scarsa testimonianza e delle molte e troppe parole sull’amore,
da parte di colui che ascolta, cresce sempre più la
chiusura e l’ottusità di fronte a una paro la che viene sempre
più ritenuta inutile alla vita.
L’ascoltatore di oggi sempre meno si lascia mettere in
discussione, perché crede di aver già trovato. In questo
senso, ogni parola sull’amore è sempre più superflua e
controproducente, in quanto accresce la negatività della
chiusura e della impossibilità a una ricerca.
E allora, a questo punto, che fare? Non parlare più dell’amore?
Già, forse sarebbe, e in teoria lo è, la soluzione più efficace.
Ma ora, praticamente, che fare? Quale intervento?
Non continuare a parlare dell’amore, ma parlare con
amore, cioè comunicando, attraverso le nostre parole,
quella realtà che passa attraverso di esse e che di esse è più
grande: l’amore. Se ci accorgiamo che le nostre parole non
comunicano o non ascoltano altro che parole, tacciamo,
che è meglio; non ascoltiamo, che è meglio. Essere uditori
della parola non basta... Occorre esse re ascoltatori del
silenzio che la parola a noi porta... Solo a questa condizione,
con questo atteggiamento, saremo o veri predicatori o
veri ascoltatori della parola dell’amore.
Il predicatore è il vero ascoltatore dell’amore.
L’ascoltatore è il vero predicatore di esso. Perché la parola
dell’amore passa attraverso il silenzio.